Considerazioni  a margine del lavoro contemporaneo 
             
        di Maria Grazia Campari     
       
        
        
            
      Il  “Collegato lavoro” è stato definitivamente approvato dal Parlamento il 22  ottobre 2010 e in stretta successione temporale, ai primi di novembre, il  Ministro del Lavoro ha avanzato la proposta alle parti sociali di prestare  collaborazione operosa a un disegno di legge delega, lo “Statuto dei Lavori”,  destinato a sostituire lo “Statuto dei Diritti dei Lavoratori” del 1970,  considerato obsoleto non diversamente dalla Costituzione repubblicana. 
        Torneremo  su questa proposta, complessa e poco chiara, anche a causa della scelta di  operare con legge delega da implementare con vari decreti delegati.
        Premettiamo  alcune considerazioni sul quadro d’insieme che si prospetta. 
        Il  “Collegato lavoro”, riproposto e approvato dopo il rinvio alle Camere da parte  del Presidente della Repubblica, contiene varie disposizioni relative a  numerose tipologie  di rapporti di  lavoro (pubblico, privato, di apprendistato, femminile, usurante, certificato  ecc), ma le più rilevanti sono senza dubbio quelle che comprimono il diritto di  agire in giudizio da parte di lavoratrici e lavoratori, a tutela di diritti  sostanziali lesi da disposizioni padronali illegittime. 
        Le  modifiche apportate al precedente disegno di legge lasciano intatta la  potenzialità distruttrice dei diritti del contraente debole nel rapporto di  lavoro, se è vero (e lo è) che il godimento di quei diritti per essere  effettivo richiede l’intervento del giudice in tutti i casi in cui esso è  contrastato dalla controparte padronale, titolare, lei sì, della possibilità di  rendere immediatamente operante, in autotutela, la propria volontà  contrattuale, in quanto proprietaria dei mezzi di produzione e titolare della  potestà organizzativa d’impresa. 
        Il  processo del lavoro costituisce, quindi, l’indispensabile presidio del diritto  del lavoro.  
        In seguito  alla legge in esame, ogni aspetto di diritto sarà inevitabilmente affievolito,  per la maggior gloria della flessibilità, grazie ad un reticolo di disposizioni  dai connotati assai negativi.  
        Per i  dipendenti della pubblica amministrazione, ad esempio, è prevista una parità  fra sessi, razze, abili e disabili ecc. nelle opportunità di lavoro, qual mezzo  al fine della maggiore produttività (!) che dovrebbe essere presidiata da un  “Comitato unico di garanzia” a composizione paritetica fra organizzazioni  sindacali e rappresentanti dell’amministrazione, organismo che, in realtà,  potrà garantire assai poco per la vastità e genericità dei compiti assegnati,  la pari presenza (ma non il pari peso) di controllori e controllati, l’assenza  d’indipendenza nelle valutazioni, la mancata partecipazione degli interessati  diretti, la mancanza di autonomia persino nella regolazione del funzionamento  interno (delegato alle direttive di ben due dipartimenti), la previsione di  disposizioni di merito della Presidenza del Consiglio dei Ministri, cui fa da  contrappunto la totale mancanza di previsione di finanziamenti a sostegno. Una  parità, a ben vedere, di pura facciata, una enunciazione di problematiche  dolenti, destinate a rimanere tali perché assai poco aggredite da interventi  efficaci. 
        Nel settore  privato un complesso di previsioni legislative tende a eliminare sia i diritti  connessi alla prestazione, sia la possibilità di un loro accertamento  giudiziale.  
        Solo qualche  esempio: i contratti certificati hanno lo scopo di sottrarre all’indagine giudiziale il merito del rapporto  attraverso esclusioni di valutazione di merito e presunzioni di legittimità o  d’illegittimità di comportamenti, rimesse alla deliberazione preventiva delle  parti, in evidente situazione di squilibrio di potere contrattuale e reale. Un  possibile e auspicabile diverso avviso del magistrato giudicante richiederà  quantomeno sforzi interpretativi, orientati ai principi cardine  dell’ordinamento giuridico e ai valori costituzionali. 
        Sempre nell’ambito della  certificazione contrattuale, è prevista la possibilità che le parti, trascorso  il periodo di prova, concordemente adottino una clausola compromissoria che sostituisce al giudice del lavoro un  arbitro privato, chiamato a decidere secondo equità qualsiasi controversia  attinente il rapporto. Una negazione del diritto di agire nell’ambito di un  giusto processo connotato da evidente incostituzionalità, anche per la già  richiamata disparità di potere fra le parti sia nella stipulazione  dell’accordo, sia nella gestione di questa non equa giustizia privata. 
        L’arbitrato,  evidentemente, va escluso in linea di principio quando si tratti di diritti  indisponibili, non passibili di affievolimento per via contrattuale, come  quelli del contraente lavoratore. 
        Un altro deciso passo  sulla via della cancellazione di diritti sta nella previsione di un doppio e  breve termine di decadenza rispetto alla possibilità di agire in giudizio:  tutti i lavoratori per quanto precari, a termine, interinali, a progetto,  coordinati o estromessi con false cessioni aziendali devono contestare la  legittimità del contratto e della sua cessazione nel termine di sessanta  giorni, essendo, per di più, vincolati a introdurre la causa d’impugnativa nel  termine di duecentosettanta giorni. Un’estinzione di diritti soggettivi  attraverso una sanatoria d’illegittimità che non trova riscontro in alcun’altra  disposizione di legge.  
        Inoltre, il diritto del  lavoratore, anche se riconosciuto in sentenza, non gli da titolo a ricevere  l’integrale risarcimento del danno effettivamente subito (tutte le retribuzioni  perdute dalla cessazione del rapporto fino alla sua ricostituzione): esso viene  forfetizzato in misura predeterminata fra le 2,5 e le 12 mensilità anche se la  causa, permanendo lo stato di inoccupazione, dura parecchi anni. 
        In questa situazione da  notte dei diritti, assai modestamente contrastata dall’opposizione  parlamentare, il sollecito Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali ha  pensato bene di interpellare le organizzazioni sindacali dei lavoratori e delle  imprese e chiederne il fattivo contributo per il varo di un disegno di legge  delega che consenta l’accantonamento dello Statuto dei diritti dei lavoratori  (legge 300/1970), in favore di un testo unico denominato “Statuto dei lavori”  destinato a svecchiare la materia dei diritti, considerati obsoleti e  inadeguati alla “competitività delle imprese”. Trattasi proprio della  competitività che ha prodotto milioni di disoccupati e di sospesi in cassa  integrazione guadagni. 
        L’impostazione della  relazione al disegno di legge è illuminante: si enuncia il medesimo intento  “riformatore” che già aveva ispirato il pacchetto Treu, la successiva legge  Biagi e il recente Collegato Lavoro. Infatti, l’impianto teorico presenta la  cancellazione di diritti e garanzie certe, perché stabilite per legge  inderogabile e universalmente valida, in favore di regole derivanti da  contratti specifici per settori produttivi (anche territorialmente diversificati)  e per aziende, avendosi particolare riguardo a eventuali crisi aziendali.  Evidente il richiamo a una impostazione tipica di un federalismo iniquo e a  parametri di giudizio completamente al di fuori dalla portata, anche cognitiva,  dei lavoratori e degli stessi sindacati, soprattutto in un periodo in cui la  finanziarizzazione fa premio sui reinvestimenti produttivi degli utili. 
        L’aspetto secondo me più  interessante nella relazione ministeriale è quello che riguarda la motivazione  principe a sostegno dell’addotta obsolescenza dello Statuto dei Lavoratori del  1970: i vantati “enormi progressi compiuti a tutela della persona che lavora”,  l’enorme “distanza che separa l’impianto di questa legge dai nuovi modelli di  produzione e di organizzazione del lavoro e dalla recente evoluzione di un  mercato del lavoro sempre più terziarizzato e plurale… con nuove istanze di conciliazione tra i tempi di vita e di  lavoro dettati dal massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro”.  (p. 1 della relazione ministeriale) 
        Sorge spontanea la  considerazione: non pare sufficiente l’obiettivo già raggiunto di un’estrema  frammentazione del lavoro nell’impresa, conseguita attraverso una pluralità di  trattamenti contrattuali applicabili a categorie di lavoratori spesso dotati dei  medesimi requisiti professionali e addetti a lavori simili o persino identici,  occorre livellare alla loro precarietà anche i lavoratori definiti “stabili”  perché tutelati da leggi promulgate nel breve periodo di adeguamento ai  principi costituzionale della legislazione italiana, gli anni Sessanta e  Settanta del Novecento (tale è lo Statuto del 1970). 
        Non cessa la  deprecazione più o meno esplicita dei diritti dei cosiddetti “garantiti”  opposti ad altri detti “flessibili”, i secondi presentati come vittime dei  primi e dei loro privilegi, senza che mai i privilegi proprietari e persino le  determinazioni antinazionali (delocalizzazioni) trovino analoghi severi  censori: importante è conseguire un’eguaglianza al ribasso fra i lavoratori. 
        Nelle considerazioni sopra  riferite si trova un altro aspetto che rappresenta la cifra del mercato  capitalista non solo contemporaneo, ma risalente nel tempo alla prima crisi  degli anni ottanta del secolo scorso, i cui doni malefici sono giunti ai giorni  nostri, opportunamente aggiornati. 
        Il (modesto) ingresso  delle donne nel mercato del lavoro offre lo spunto per giustificare la  flexicurity, cioè il livellamento di tutti alla flessibilità precaria, in nome  della conciliazione fra  lavori formali  e informali, produttivi e di cura famigliare. Il problema della conciliazione è  visto, nell’ottica patriarcale, come esclusivamente femminile, ma gli esiti  perversi della precarietà si espandono a macchia d’olio sull’intero complesso  della mano d’opera maschile e femminile variamente impiegata.  Indubbiamente un buon argomento per  contrastare la conciliazione e i suoi cantori bipartisan. 
        L’impostazione del  disegno di legge, teso a identificare e soddisfare le esigenze d’impresa anche  ai loro livelli più minuti conformando su di esse le tutele (molto residuali)  dei lavoratori,  si pone apertamente  l’obiettivo di tutelarne la concorrenza e porterà inevitabilmente, per arginare  competizioni asseritamente fondate su forme di dumping sociale, anche alla obliterazione  dell’articolo 18 dello Statuto del 1970, già ripetutamente aggredito da  referendum abrogativi e proposte di modifica altrettanto radicali. 
        La fine del diritto del  lavoro costituzionalmente orientato si profila nel nostro presente e nel futuro  immediato.  
    A mio parere il rimedio  è uno solo, quello dismesso dal mondo del lavoro almeno a far tempo dai primi  anni Novanta del secolo scorso, auspice il famoso patto fra produttori: è la  riattivazione del conflitto di classe, finalmente intrecciato e rivitalizzato  dal conflitto di sesso, per dare voce, rappresentanza e dignità di soggetti  autonomi alle persone in carne e ossa, guidate nel mondo dall’autenticità dei  loro bisogni e desideri. 
      
    2-12-2010  |